Non esistono solo quelli che quando stanno male cercano le cure su internet anziché rivolgersi al medico. Oltre ai cultori delle diagnosi “fai da te”, anche in agricoltura prosperano infatti i “dottori del web”. Quelli cioè che sanno trovare in rete dossier e report, li sanno scaricare e poi diffondere sui social network, accompagnandoli spesso con aspre considerazioni personali, senza però interrogarsi sulle proprie capacità di interpretare i dati.
E così internet è divenuto nel tempo una sorta di gigantesco “Dilettanti allo sbaraglio”, ove un folto esercito d’inesperti accerchia uno sparuto manipolo di competenti in materia. La lotta appare spesso impari, ma proprio per questo è ancor più degna di essere combattuta, anche in tema di agricoltura e non solo di medicina.
Fra i vari case history di cui si potrebbe parlare, se ne è scelto uno molto semplice e immediato. Uno dove ci sono tutti i personaggi con il physique du role per salire sul palcoscenico della disputa mediatica. C’è il Buono, colui che diffonde le informazioni scottanti. C’è il Cattivo, ovvero la molecola colpevole di innumerevoli nefandezze. C’è la Verità, scritta chiara e netta sui documenti ufficiali. Peccato che poi, all’improvviso, appaia anche il Rompiscatole, quello cioè che rimescola la trama e partorisce il finale a sorpresa. Finale che non sempre genera applausi, ovviamente. Leggere fino in fondo per credere…
Lo si usa in pratica solo in vigna, dove però se lo applichi tardi rischi non ti parta la fermentazione in cantina, lo si sa da decenni. Ha una classificazione tossicologica poco favorevole, con una “Xn – nocivo” causata da una frase di rischio pesante, la R40, ovvero “Possibilità di effetti cancerogeni - Prove insufficienti”. Ostracizzato per questo dalla maggior parte dei disciplinari di produzione integrata, folpet è noto in buona parte per gli effetti irritanti sulla pelle, come per esempio l’orticaria che esplode in certi tecnici ed Enti ufficiali solo a sentirlo nominare. Ma folpet è davvero il mostro che si dipinge?
Chi lo utilizza fa bene a rispettarlo, sia chiaro, perché non è di certo una mammoletta. Oltre alla R40 sopra citata i suoi formulati hanno in etichetta anche la R20 (Nocivo per inalazione), la R36 (Irritante per gli occhi), la R43 (Può provocare sensibilizzazione per contatto con la pelle). Neanche per l’ambiente folpet appare a prima vista amichevole, dato che sulle sue etichette commerciali compare la R50 (Altamente tossico per gli organismi acquatici). Una frase di rischio che gli è valsa infatti la fatidica “N”, ovvero “Nocivo per l’ambiente”. Quindi, onestamente, perché diavolo mai dovremmo utilizzarlo ancora? Forse perché in alcune situazioni serve, funziona, controlla più malattie contemporaneamente e stronca i ceppi nascenti di peronospora resistente. Chi lo usa da sempre, infatti, se ne guarda bene dal mollarlo, come avviene in alcune aree del Nord Est italiano. Ma andiamo per ordine.
Si parta quindi dal fondo, ovvero dai pericoli per il comparto acquatico. La R50 si trova non solo nelle etichette dei preparati a base di folpet, ma anche, tanto per dirne una, su quelle di alcuni formulati rameici utilizzati con tanto entusiasmo pure nel biologico. Formulati che oltre alla R50 “vantano” magari anche la R53, ovvero “Può provocare a lungo termine effetti negativi per l'ambiente acquatico”. Il rame arriva nelle acque? Tranquilli: no, non ci arriva. Per sua natura resta dove lo si usa e quindi non ci sono pericoli per pesci e gamberetti, con buona pace delle nefaste frasi di rischio. E folpet?
Folpet ha valori di logKow compresi fra 2,85 e 3,63, valore quest’ultimo selezionato come valido dall’Ispra(1). Dato che questo parametro esprime l’affinità di una molecola per le matrici apolari, più alto esso è e meno la sostanza tenderà ad andare nelle acque. Viene espresso su scala logaritmica in base 10, questo vuol dire che un prodotto con logKow = 3 è mille volte più affine per le matrici apolari che per la matrice acquosa. Uno con il logKow = 4 lo è ben 10 mila volte.
Con un robusto logKow di 3,63 anche folpet tende a restarsene lì, nei campi ove è stato applicato, adsorbito dalla sostanza organica presente nel terreno. Proprio come avviene per il rame.
La sua affinità per la sostanza organica del suolo non sembra peraltro rappresentare alcun problema, visto che ha una LC50 (tossicità acuta) per i lombrichi pari a 339 mg/kg di suolo e le sue concentrazioni nei primi cinque centimetri di terreno si assesterebbero su valori di poco superiori ai 4 mg/kg(*) anche se tutta la dose per ettaro finisse lì anziché sulle viti. Nella realtà, le concentrazioni di folpet nel terreno subito dopo un trattamento possono toccare al massimo una frazione minima di questa cifra, con somma gioia dei lombrichi e delle altre forme di vita che vi prosperano al fianco.
Vista poi la scarsa affinità di folpet per l’acqua e il tempo di dimezzamento pari a soli 4,3 giorni(2), la quantità di sostanza attiva potenzialmente asportabile dalle piogge diviene quasi omeopatica. E anche quella poca che l’acqua si portasse via dal campo mostrerebbe un’emivita per idrolisi inferiore alle tre ore che diventano addirittura pochi minuti in acque alcaline. Non è quindi per caso se folpet non compare affatto nei report emessi dall’Ispra sulle acque(3), nemmeno nelle aree dove viene utilizzato ripetutamente.
Se infine andiamo a guardare pure gli impollinatori, con la sua LD50 sulle api superiore a 236 µg/ape, folpet appare meno pericoloso perfino del già citato rame, il quale mostrerebbe invece valori compresi fra 11 e 116 µg/ape a seconda delle forme e delle fonti. Si ricorda infatti che più piccolo è il numero, più alta è la tossicità.
Appurato quindi che a livello ambientale folpet è tutto tranne che un ecomostro (per lo meno non è peggio di alcuni prodotti usati addirittura nel Bio), proseguiamo quindi con la parte più sensibile: la tossicologia.
Ed eccoci giunti al tema clou dell’articolo, ovvero i potenziali effetti cancerogeni di folpet.
Leggendo i report dell’Epa americana(4), la sostanza attiva sarebbe risultata cancerogena. Si, ma a quali dosaggi? I test di cancerogenesi su ratto e topo sono stati condotti sull’arco di due anni, praticamente la metà o più della vita fisiologica delle cavie. A 1.000 mg/kg/giorno di peso corporeo il 50% delle cavie ha sviluppato adenocarcinomi. Detta in altri termini, alle cavie è stato somministrato col cibo, ogni giorno, per due anni, un grammo di folpet per ogni chilo di peso corporeo. Chi scrive pesa 85 chili e quindi avrebbe dovuto ingerire mediamente quattro cucchiai da minestra al giorno della sostanza attiva. E per la bellezza di due anni. Un totale di 62 kg di folpet puro (!). Praticamente, se dopo questo trattamento andassi a urinare in un vigneto lo sterilizzerei dalla peronospora per almeno qualche anno. A patto di essere ancora vivo, ovviamente.
Tali risultati di laboratorio, per quanto ottenuti a dosi da cavallo più che da topi, hanno comportato l’inclusione nel cosiddetto “Gruppo B2” dello Iarc (Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro), cioè quello dei potenziali cancerogeni per l’Uomo. E ciò a riprova di quanto siano prudenziali i criteri di classificazione e di autorizzazione degli agrofarmaci, checché ne dicano gli scettici. In altri test, sempre su roditori, folpet avrebbe poi mostrato un residuo effetto nocivo a 350 mg/kg/giorno e una No Adverse Effect Level di 9 mg/kg/giorno.
Giusto per dovere di cronaca, nel medesimo “Gruppo B2” dello Iarc ricade anche il safrolo, un composto aromatico presente in molte spezie di uso comune, i cui nomi non verranno riportati onde evitare stranguglioni a tavola in chi stesse per assaggiare besciamelle o risotti. Se siete curiosi di sapere cosa sia il safrolo e dove ve lo mangiate allegramente più volte all’anno, lascio a voi il compito di cercarvelo su internet.
Stabiliti i parametri ai quali folpet ha mostrato effetti nocivi o cancerogeni, come pure quelli ai quali risulta innocuo, almeno per i roditori, ci si chieda ora quali siano i potenziali livelli di esposizione alla sostanza attiva da parte dei comuni cittadini. Impresa che si arena appena iniziata: folpet in Italia non viene di fatto utilizzato su altre colture che la vite da vino, quindi è nel vino che si potrebbe incontrare un suo residuo. Ma nel vino non ce ne può essere, perché la sua presenza nei mosti ne impedirebbe la fermentazione. Punto. Se per caso finisse nei mosti il problema sarebbe infatti, come detto all’inizio, più che altro per il vignaiolo, il quale non vedrebbe neanche partire le fermentazioni nei tini. Né tanto meno folpet si trova nelle acque, per i motivi precedentemente esposti. Quindi non entra nelle case nemmeno attraverso i rubinetti. Unica fonte di esposizione può essere quella occasionale dovuta alla deriva in corrispondenza dei trattamenti. Può infatti capitare di abitare attaccati a un vigneto e in tal caso l’esposizione a folpet potrebbe in effetti avvenire, anche se in forma alquanto saltuaria, massimo 2-3 volte all’anno. Se però il vignaiolo utilizza un irroratore a ricircolo, atto a evitare derive e perdite di prodotto, folpet giunge sulla vite, lì si ferma e lì si degrada senza andare da alcuna altra parte. Tali irroratori sono infatti in grado di abbattere la deriva fino al 98% rispetto ad altre soluzioni convenzionali, risolvendo così anche gli annosi problemi di vicinato.
In considerazione di quanto sopra, appare quindi molto dura stabilire un valore concreto di esposizione per i cittadini consumatori, a meno di arrivare a cifre con molti zeri dopo la virgola. Detta in altri termini, i livelli di esposizione umana alla sostanza attiva tendono asintoticamente a zero. Nella più prudente delle ipotesi – giusto per essere garantisti – questi livelli possono essere fissati al massimo alcuni milioni di volte al di sotto non solo delle dosi alle quali il prodotto si è mostrato cancerogeno, ma perfino rispetto a quelle della No Adverse Effect Level. In pratica, solo gli operatori sono esposti in modo significativo ai rovesci della medaglia legati all’uso di folpet.
Stanti così le cose – e riprendendo dal titolo stesso dell’articolo - non sarebbe quindi bene che fossero gli agricoltori a poter decidere se utilizzare o meno folpet nei propri vigneti senza per questo essere sbattuti fuori dai disciplinari di produzione?
La domanda, ovviamente è pleonastica, ovvero se ne conosce già la risposta. Folpet è fuori. Punto. Avanti il prossimo. Poi, chissà, magari, un giorno, accadrà come avvenuto nelle risaie, nelle quali si è dovuto riesumare pretilaclor, diserbante dall’indiscussa efficacia che non era nemmeno stato difeso in sede di Revisione Europea. Le resistenze delle malerbe sono infatti divenute tali da doverne accettare il ritorno, per taluni a bocca storta. Perché quando i buoi sono scappati, per riprenderli bisogna chiamare i cow-boy, mica le signorine da salotto. Quando infine si capirà che le stalle vanno chiuse prima che i buoi scappino, sarà sempre tardi.
Proposta per tecnici ed Enti ufficiali: e se a livello nazionale folpet venisse riammesso in deroga in tutti i disciplinari di produzione per la vite da vino, per un numero limitato di trattamenti, a patto che gli agricoltori si dotassero di atomizzatori a ricircolo? E se ogni altro agrofarmaco attualmente estromesso dai contributi venisse rianalizzato seguendo l’approccio di cui sopra, anziché fermarsi alle frasi di rischio meramente teoriche scritte in etichetta? Perché se fra due prodotti, uno ammesso e l’altro no, non sussistono differenze concrete né per la salute né per l’ambiente, per quale ragione si dovrebbe perseverare nel premiare il primo penalizzando il secondo? Tale approccio non solo limita inutilmente le scelte tecniche di campo e quindi la libertà d’impresa, ma crea anche una rendita di posizione economica a favore di alcuni prodotti a scapito di altri. E se fra prodotti non vi sono differenze oggettive misurabili, ciò ha davvero poco senso. Che ognuno faccia quindi il proprio mestiere: tossicologi, ecotossicologi, normatori, Enti, agricoltori e perfino giornalisti. Ma che ognuno - nell’interesse comune - dimostri almeno di saperlo fare bene.
(*) Considerando una dose di 2 kg/ha di un formulato all’80% di sostanza attiva e una densità del terreno pari a 0,7 tons/m3:
1,6 kg (s.a.) = 1.600.000 mg/ha;
0,05 m x 10.000 m2 = 500 m3 x 0,7 = 350 tons = 350.000 kg
1.600.000 mg / 350.000 kg = 4,56 mg/kg
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